Il sangue palestinese è sulle mani di tutti

L’operazione militare israeliana “Protective Edge” prosegue senza sosta da ormai più di venti giorni. Quella che si preannunciava come una ” operazione chirurgica” ha già ucciso 1200 Palestinesi, quasi tutti civili (74% secondo le Nazioni Unite), un massacro inevitabile in un contesto ad alta densità abitativa come Gaza, una prigione a cielo aperto di 360 km2 in cui sono stipati 1,8 milioni di abitanti, sprovvisti di rifugi anti bombe e di ogni sorta di via di fuga. È un massacro inutile agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, inutile persino agli occhi di una buona fetta della società israeliana, prontamente messa a tacere dal governo di Tel-Aviv, “l’unica democrazia” del Medio Oriente.

La carneficina è talmente priva di senso che Israele, per giustificarla dinanzi alla comunità internazionale, non può far altro che negarne l’evidenza – come sottolinea lo scrittore israeliano Nir Baram – o meglio manipolarla. E lo fa soprattutto attraverso due leitmotiv: la retorica degli scudi umani (le abitazioni private, le moschee, le scuole e gli ospedali sono tutti dei nascondigli di Hamas) e la pratica “umanitaria” del roof-knocking (avvisare i civili dell’imminente bombardamento “bussando” sul tetto delle loro abitazioni con missili depotenziati), che di umano non ha proprio nulla. Anzi, assieme alla retorica degli scudi umani, il roof-knocking è il nuovo “trucchetto politico” che Israele usa per de-umanizzare le sue vittime, per trasformarle da persone, portatrici di diritti e dignità, a “danni collaterali”, bersagli legalmente abbattibili dal punto di vista del diritto internazionale, lo stesso diritto di cui Israele si fa beffa dal 1948.

Ma allora perché se il quadro della situazione è così lampante, Israele continua ad agire indisturbato?

La verità è che nell’era del capitalismo globale, dove le relazioni internazionali sono rette dall’economia piuttosto che dalla diplomazia, agli Stati occidentali conviene fare affari con Israele, soprattutto nel settore militare e della difesa.

Anche l’Italia che, attraverso le parole della ministra degli affari esteri Federica Mogherini chiede a gran voce il cessate il fuoco, ha le mani sporche di sangue palestinese, a causa delle sue scelte economiche. L’Italia, infatti, nell’ambito di due accordi di cooperazione siglati con il governo di Tel-Aviv nel 2005 e 2012, è prima in Europa nelle esportazioni di sistemi militari in Israele, in particolare attraverso i gruppi Alenia Aermacchi, Chrysler, IVECO e CNH Global, mentre Israele è il quarto fornitore del nostro ministero della difesa a cui vende componenti per bombe e armi automatiche.

Gaza è soltanto il risvolto più oscuro e drammatico della politica di apartheid di Israele. Ma la Palestina non è soltanto Gaza, la Palestina è anche Cisgiordania, dove la situazione è “normale”. Ma cosa c’è di normale nell’avanzamento a macchia d’olio degli insediamenti illegali israeliani, nelle file interminabili ai check-point, nelle detenzioni amministrative, nella demolizione di case, nello sradicamento di ulivi e nel muro dell’apartheid? L’Italia, vendendo mezzi militari ad Israele, si rende complice anche di questa “normalità”.

Noi, giovani donne e giovani uomini di oggi, non vogliamo essere o sentirci complici della stessa politica o anche semplicemente della stessa mentalità. Il miglior modo per esprimere il nostro dissenso ci sembra proprio questo: informare e informarci in modo pulito e obiettivo, con il coraggio di fare critica anche rispetto a ciò che apparentemente non ci tocca da vicino.